Sul muretto del molo di Viareggio, vicino al ponte mobile, si trova la statua di Ettore, il gatto dei pescatori.
Opera di Giuseppe Del Debbio.
Sul muretto del molo di Viareggio, vicino al ponte mobile, si trova la statua di Ettore, il gatto dei pescatori.
Opera di Giuseppe Del Debbio.
(titolo originale Havboka, 2015; trad. Francesco Felici (2017))
Ho letto solo poche pagine, per ora, di questo libro, che parla di pesca e che dovrebbe descrivere la caccia al grande squalo della Groenlandia. Non è un argomento che in realtà mi trova molto appassionata, anzi mi trova contraria soprattutto se si tratta di sterminare specie a rischio di estinzione, però sembra comunque un testo interessante. A pagina 30 ho trovato una riflessione che fa riflettere, benché non sia nuova e che mi ricorda qualcosa di simile che ho letto in Metafisica dei tubi di Amélie Norhomb (per inciso, consiglio di leggere qualcosa di questa scrittrice, è davvero originale). Ecco il brano che mi andava di sottolineare:
Un noto biologo evolutivo una volta ha descritto noi esseri umani, non importa quanto educati e illustri, come un canale di dieci metri in cui passa il cibo. Tutto quello di cui ci siamo dotati attraverso l’evoluzione – cervello, ghiandole, organi, muscoli, scheletro e via dicendo – è solo «equipaggiamento accessorio» costruito intorno a questo canale.
Un modo come un altro per richiamarci all’umiltà e ricordare che siamo tutti uguali. Ugualmente animali, direi.
Ancora spoglio, anche se con i frutti (immagino).
Mi piaceva il contrasto fra le linee dei rami e il cielo.
(Nel parcheggio del centro commerciale)
Da circa una settimana il mio romanzo circa noir “La grande menzogna“ è disponibile sullo store di amazon anche in versione cartacea, allo stesso link dell’ebook.
Questo è un breve brano, scritto in prima persona da uno dei protagonisti.
Sabina è bellissima. Non sono solo io a dirlo, ma chiunque la conosce non può fare a meno di ammirare il suo corpo perfetto, il suo volto regolare, i suoi morbidi capelli biondi. Da quando, due anni fa, è stata tra le finaliste del concorso nazionale per Miss Mondo ha molto successo come modella. Posa per fotografi illustri e fra breve, ne è sicura e lo sono anch’io, lavorerà in televisione.
Quando sono con lei sguardi carichi di invidia mi si posano sulle spalle. So cosa gli altri uomini si chiedono: come può quello lì, che non è né bello né aitante né ricco accompagnarsi al Sole? Spesso me lo chiedo anch’io. Perché ha scelto me, uno come tanti? Lei che è la più bella, la più brava. So che un giorno mi lascerà, che la nostra storia non durerà per sempre e soffro paventando quel momento. Intanto la coccolo, la vizio. Soffoco dentro di me la piovra della gelosia che mi tormenta ogni volta che non siamo insieme, anche se non posso impedirmi di soffrire.
Crescere ancora
Adesso ho anche una mezza sorella, figlia di mio padre e della sua seconda moglie.
Così i miei genitori hanno entrambi una nuova famiglia e io non faccio parte di nessuna delle due. Hanno anche smesso di considerarmi strana. In pratica hanno smesso di considerarmi. Ma ormai a me va bene così.
In palestra vorrebbero che facessi le gare, il maestro dice che me la cavo bene. Forse proverò, almeno una volta. Forse così mi sentirò parte di qualcosa, chissà.
Quest’anno mi aspetta l’esame di maturità, sono contenta di finire il liceo e impaziente di iniziare l’università. Ho già deciso la facoltà a cui iscrivermi. Per la verità credo di averla scelta molti anni fa, quando ho letto in un libro che la materia è fatta di atomi, che a loro volta sono costituiti da elettroni, protoni e neutroni, formati da altre particelle più piccole: ho trovato tutto questo terribilmente affascinante, come le bambole russe che stanno una dentro l’altra: la materia come una matrioska, insomma.
Ieri Tommaso, uno dei ragazzi che frequentano la palestra, mi ha chiesto cosa pensavo di studiare all’università e quando gliel’ho detto ha commentato che secondo lui ho proprio l’aria da scienziata. Non ho capito se intendeva prendermi in giro. Per tutta la sera mi sono domandata che aria hanno le scienziate, se sono brutte e poco femminili, o se non sanno civettare e sono introverse. Oppure se hanno altre strane caratteristiche che consentono agli altri, alle persone normali, cioè, di riconoscerle. Mi sono guardata allo specchio e mi sono ripetuta “sei una scienziata, sei una scienziata”, fino a che quelle tre parole sono diventate una sequenza di sillabe senza significato, un lungo suono indistinto. Allora mi sono messa a ridere.
«Malato. Lei è malato. Ma non si preoccupi. Si può benissimo curare. Ci vuole un po’ di pazienza e di collaborazione da parte sua. Sono certo che insieme risolveremo questo problema.»
Poi mi ha chiesto duecento euro, senza ricevuta, altrimenti sarebbero stati duecentocinquanta, e mi ha dato la mano. «Allora ci vediamo martedì prossimo, stessa ora» ha aggiunto. Io ho risposto di sì perché era la risposta più facile.
Mentre guidavo verso casa quella parola, malato, continuava a rimbalzarmi da una parte all’altra del cervello. Io malato? Non ero convinto che il dottore avesse ragione, nonostante i duecento euro e il fatto che mi era stato caldamente raccomandato da un caro amico, di cui aveva salvato (parole dell’amico) la figlia diciottenne.
Sarà che ormai io vado per i cinquanta, ma non riuscivo proprio a convincermi di essere malato. Al contrario, più che ci pensavo, più mi sentivo nel giusto. Non ero io, quello malato. Bensì il mondo, tutto ciò che mi circondava. Compreso il dottore, con i suoi duecento senza ricevuta e duecentocinquanta con. Malato di disonestà. O, almeno, di avidità. Da cosa poteva mai salvarmi uno che non riusciva neppure a salvare se stesso dalla propria ingordigia? Mi esercitai in un rapido calcolo: un paziente ogni ora, sei ogni pomeriggio: voleva dire mille e duecento euro al giorno, ovvero seimila alla settimana, ovvero ventiquattromila, abbondanti, milioni al mese. Solo con le visite in ambulatorio. Mica male. E in nero. Di sicuro il suo 740 dichiarava un reddito ben più misero di quello stampato sul mio CUD di modesto impiegato comunale.
No, non ero malato. Non sarei tornato in quello studio. Non ero da salvare. Non esisteva salvezza.
Quello che mi era successo in fondo mi sembrava inevitabile. Mi chiedevo piuttosto perché non fosse successo anni prima.
È cominciato una sera mentre mangiavo. Solo come al solito. Come al solito avevo acceso la tivù. Quella di cena è l’ora del telegiornale: notizie infami che si susseguono. A un certo punto il mio braccio si è immobilizzato mentre portavo la forchetta alla bocca. E le labbra mi si sono serrate. E lo stomaco ha gridato BASTA. Non ricordo cosa stavano dicendo. Né quale scena fosse stata proposta ai miei occhi. Ho provato anche un senso di nausea, e l’istinto di vomitare. Sono corso in bagno, ma niente. Ho bevuto. Dell’acqua. Più volte, cercando di cancellare il sapore amaro e cattivo che mi era rimasto in bocca.
Mi sono sforzato di proseguire la cena. La pasta no, magari un po’ di verdura, uno spicchio di mela. Ma i miei gesti si fermavano a mezz’aria, il mio stomaco, o qualcosa ancor più dentro di me, ripeteva BASTA, BASTA.
Allora ho sparecchiato. La vista del cibo mi infastidiva. Ho pensato avrò preso un virus, con tanti che popolano l’atmosfera. Uno di quelli che bloccano l’appetito e danno disturbi di stomaco. Se non fossi stato meglio l’indomani sarei andato dal medico. Ma non me la presi molto, un po’ di digiuno non poteva che farmi bene.
Nei giorni seguenti mi resi conto che il responsabile della mia improvvisa avversione per il cibo non era un virus né niente di simile. La faccenda era molto più complessa. O più semplice, a seconda del punto di vista. In ogni caso definitiva. Il mio problema era tutto. Tutto ciò che accadeva. Intorno a me e altrove, anche molto lontano. Pensai che fosse sufficiente non guardare il telegiornale e non leggere i quotidiani, soprattutto in concomitanza dei pasti. All’inizio l’espediente funzionò.
Poi la nausea e il rifiuto per il cibi ricominciarono. Capii che ormai quel tutto mi era entrato così dentro che niente avrebbe potuto liberarmene. E io ero dentro al tutto e non avevo modo, o forse capacità o volontà sufficiente, di uscirne. Solo una via conoscevo: ridurre, abolire tutte le interazioni fra me e il tutto, fra me e il mondo. E la prima relazione che mi era venuto spontaneo interrompere era stata quella considerata fondamentale per la sopravvivenza: avevo smesso di nutrirmi.
Talvolta uno strano istinto mi spinge ancora a mandare giù qualche boccone, ma sempre più di rado.
Fu solo per accontentare il mio amico che insisteva, preoccupato per me, che, dopo qualche settimana dall’inizio del mio digiuno, mi recai dallo psicanalista. In realtà lo ritenevo inutile, come fu. Il professore, infatti, si limitò ad appiccicarmi addosso la sua brava etichetta: anoressico, dunque malato. Mi lasciò parlare per quasi un’ora, ma senza ascoltare le mie parole. Le interpretò secondo la sua diagnosi, formulata dopo la mia prima frase. Però era manifestamente interessato al mio caso, che risultava piuttosto insolito, sia per il sesso, che per l’età. Gli si leggeva negli occhi. Ma non gli ho consentito di studiarmi. Anzi, l’incontro con lui ha rafforzato la mia convinzione: non sono malato. Ne sono sicuro. È il mondo ad esserlo. E poiché non c’è niente che io possa né sappia fare per guarirlo, non trovo altra soluzione che lasciarlo.
Il mio corpo si sta consumando lentamente. In tre mesi ha perso circa venti chili di peso. Il mio tempo scorre ormai da una mattina a una sera attraversando notti e giorni che sempre più si somigliano, la luce e il buio sono divenuti entrambi una penombra ovattata, nella quale giungono sempre meno echi e notizie dall’esterno: ho gettato via l’apparecchio televisivo; non compro più giornali. Ho smesso di andare in ufficio. Raramente varco la porta di casa, fuori da essa tutto mi assale implacabile, come un flash accecante.
Non c’è niente infatti che possa indurmi a interrompere questa agonia, al contrario: occhi orecchie naso mi ricordano continuamente i mille e mille motivi che, dapprima inconsapevole, mi hanno portato a questa scelta. Non so più andare avanti tappandomi occhi orecchie naso, fingendo che il calcio, i talk show, le ferie al mare, la macchina nuova possano riempirmi la vita e cancellare tutto il resto. Inquinamento, povertà, razzismo, corsa alla sopraffazione e alla supremazia… Non so tollerarli più. E non avendo né la forza né la fantasia per lottare contro tutto ciò, posso soltanto lasciare che il mio corpo si arrenda al niente continuando a gridare il suo silenzioso BASTA. Tra poco, forse giorni, forse ore, abbandonerò dunque la partita. Sconfitto, sì, ma non più complice.
Questa è una delle poesie che preferisco fra quelle di Cesare Pavese, uno dei miei scrittori prediletti del tempo dell’adolescenza.
La poesia mi piace perché molto essenziale, quasi scarna, aiutata in questo dell’inglese, lingua spesso più essenziale e sintetica dell’italiano (a mio parere). Una poesia che è quasi una canzone, come del resto dice il titolo.
Da notare che è stata scritta pochi mesi prima del suicidio dello scrittore (27 agosto 1950).
‘T was only a flirt
you sure did know –
some one was hurt
long time ago.All is the same time has gone by –
some day you came
some day you’ll die.Some one has died
long time ago –
some one who tried
but didn’t know.11 aprile 1950
Segnalo l’uscita di questo romanzo di Beatrice Masci, pubblicato, in formato cartaceo, da Edizioni Montag, nella collana Le Fenici.
Sinossi
Ogni anno centinaia di migliaia di persone intraprendono il Cammino verso Santiago de Compostela. Un cammino che non è soltanto una prova fisica, ma un vero viaggio dentro se stessi. Con passione, ironia e arguzia, Beatrice Masci fa raccontare ai suoi piedi gli ottocento chilometri percorsi in 33 giorni, con una vera e propria immersione nella sacralità dei luoghi percorsi e dei pellegrini incontrati, in un’alternanza di sorrisi e riflessioni che faranno “bere” al lettore il racconto di un cammino in cui si “annullano le differenze e si arriva all’essenziale”.
L’autrice
Beatrice Masci è nata nel 1963 in Umbria, nel piccolo paese di San Vito. Insegnante per dieci anni, ha poi scoperto la sua vera vocazione dedicandosi al giornalismo e alla scrittura. In cammino verso Compostela è il suo secondo romanzo: ha infatti recentemente esordito nel mondo della letteratura con il libro Vado a vivere in campagna: istruzioni per l’uso, Edizioni Thyrus.
Informazioni
Data di uscita: 20 febbraio 20178
Pagine: 67; prezzo: 12,00 (cartaceo) * ISBN-10: 8868922320; ISBN-13: 978-8868922320
Alle nove meno tre minuti la ragazza vestita di nero salì sull’autobus e sedette come sempre dietro al posto di guida. Quella sera portava la minigonna, gli stivali, un giubbotto imbottito e lo zainetto, tutto nero; anche i capelli erano neri, mentre la pelle del viso era molto chiara; le labbra ravvivate da un rossetto quasi fucsia erano sottili e neppure il colore sfacciato riusciva a renderle volgari. L’autista non aveva ancora potuto scorgere gli occhi e non sapeva di che colore li avesse, ma era sicuro che anch’essi fossero scuri. Indossava orecchini in argento, forse coccodrilli oppure serpenti. Il tempo che impiegava la ragazza a passargli accanto era troppo poco perché lui fosse in grado di cogliere certi particolari; il ritratto che andava dipingendo nella sua mente era il risultato di pennellate raccolte in due settimane.
La ragazza vestita di nero pareva una studentessa, era giovane; l’autista pensava che non avesse più di diciotto anni. Lui ne aveva quaranta corredati di famiglia.
Non era innamorato della ragazza vestita di nero. Non proprio. Ma se avesse dovuto definire il sentimento che provava per lei quello che era più simile gli sembrava l’amore. Durante il giorno, soprattutto quando era alla guida dell’autobus pensava spesso a lei, e cercava di immaginare cosa stava facendo, dove viveva, che luoghi e che persone frequentava. Non era amore. O forse sì. Ma questo non era importante. Era importante che ogni sera lei salisse sull’autobus. A volte avrebbe voluto dirle qualcosa, scambiare due chiacchiere, fare conoscenza. Ma tutte le frasi che gli venivano in mente gli sembravano terribilmente banali, e così non le parlava mai.
Una sera di gennaio pioveva forte. Erano le nove meno due minuti e lei non era ancora arrivata. Un minuto alle nove, le nove: niente. Lui aspettò ancora, non sapeva decidersi a partire. Sull’autobus, per via del brutto tempo, solo tre passeggeri. Alle nove e due accese il motore. Un altra manciata di secondi e poi sarebbe dovuto partire. Stava per ingranare la prima quando la vide all’angolo della piazza, correva, riparandosi sotto una mantella di incerato nero.
Appena fu salita l’autista chiuse le portiere e l’autobus si mosse. Lei si era appoggiata alla porta di vetro che separava la cabina di guida dai passeggeri. Disse: “Credevo di aver perso l’autobus, ero così in ritardo.”
Aveva una voce argentina, squillante. Giovane, assolutamente giovane.
“Non sono partito in orario. Ti ho aspettata, ero sicuro che stavi per arrivare.”
Lei lo guardò con stupore misto a una soddisfazione quasi infantile:
“Ti ringrazio. è bello sapere che ti sei accorto di me.”
Dall’impermeabile della ragazza scendevano gocce d’acqua che formavano una pozza ai suoi piedi, lui le vedeva ogni volta che si girava. Al primo semaforo rosso ebbe modo di guardarla: gli orecchini erano a foggia di draghi: né serpenti né coccodrilli dunque, semmai entrambi. E gli occhi erano grigi, di una tonalità che non aveva mai visto, ricordavano il colore dell’argento brunito.
“Torni a casa adesso?” le chiese, non tanto perché gli interessasse la risposta, quanto per il piacere di udire la sua voce.
“No, vado a trovare un’amica. Resto da lei per un’ora, poi me ne vado. L’autobus che prendo per tornare alla Stazione tu non lo guidi mai.”
“Infatti, finisco il turno alle dieci.”
Per un attimo temette che lei gli dicesse “vediamoci dopo”: avrebbe rovinato tutto; parlarsi era già quasi troppo, figuriamoci un appuntamento.
Ma la ragazza vestita di nero non aveva altro da dire. Gli sorrise e andò a sedersi dietro di lui. Quando scese gli fece un cenno con la mano per salutarlo.
Da quella sera quando saliva gli diceva “ciao” prima di accomodarsi al solito posto.
L’autista lavorava tutto il giorno pensando a quella corsa, in cui guidava solo per lei. Se lei gli avesse chiesto di cambiare strada lo avrebbe fatto, infischiandosene delle proteste degli altri, o inventando loro che il percorso era stato modificato per qualche giorno. Ma la ragazza non gli chiedeva mai niente.
Un giorno, era la metà di febbraio, mentre era fermo al capolinea in attesa dell’ora di partire, provò un dolore al cuore. Un dolore netto, come se una lama gli spaccasse il muscolo. E poi lo invase una grande stanchezza. Un signore salendo sull’autobus notò il suo pallore e gli chiese se stava male.
“No, sto bene” rispose lui con fatica. Se avesse detto di sentirsi male lo avrebbero portato da un medico e non avrebbe potuto guidare la corsa delle nove, e non avrebbe visto la ragazza vestita di nero.
Ma dopo qualche istante un sonno pesante lo avvolse, e reclinò la testa da un lato. I passeggeri chiamarono gli autisti degli altri autobus fermi lì vicino. Lo portarono all’ospedale.
Alle nove precise un lieve sorriso gli allargò le labbra.
Alle nove e uno la macchina che tracciava i battiti del suo cuore prese a segnare una linea piatta. La moglie che lo guardava dal vetro della stanza per le terapie intensive comprese.
Nel corridoio, leggera come un’ombra, passò una ragazza vestita di nero era venuta a prenderlo.
(1996)
Questa sera sono stata a vedere Carmen. Nuovamente al cinema, dove è stata trasmessa in diretta la rappresentazione della Royal Opera House che si teneva a Londra al Covent Garden, come per Tosca.
Una rappresentazione non convenzionale, che però, a parte qualcosa, mi è piaciuta. Molto sensuale, soprattutto la prima parte. Carmen è, poi, un personaggio fantastico, una donna davvero speciale e libera.
Sulla scena c’è sempre e solo una grande scalinata, che si muove avanti e indietro, all’occorrenza. I costumi sono del periodo intorno al 1930, in Argentina.
Qualche idea ve la potete fare, forse, dalle foto che riporto qui sotto. La scena era sempre piuttosto buia e gli scatti fatti allo schermo cinematografico non sono davvero un gran che…
Qui sotto gli interpreti principali e la locandina dal sito della Nexo, dove si possono leggere molte altre informazioni sulla rappresentazione.
Regista Berrie Kosky
Direttore d’orchestra Jakub Hrůša
Carmen Anna Goryachova
Don José Francesco Meli
Micaëla Kristina Mkhitaryan
Escamillo Kostas Smoriginas
Chorus Royal Opera Chorus
Concert Master Sergey Levitin
Orchestra of the Royal Opera House
Laudabunt alii claram Rhodon aut Mytilenem...
Riscrivere San Miniato
Un blog sulla scrittura e sulla pubblicazione indipendente
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Prima il dovere poi il piacere
"L'unico uccello che osa beccare un'aquila è il corvo. Si siede sulla schiena e ne morde il collo. Tuttavia l'aquila non risponde, nè lotta con il corvo, non spreca tempo nè energia. Semplicemente apre le sue ali e inizia ad alzarsi piu'in alto nei cieli. Piu' alto è il volo, piu' è difficile respirare per il corvo che cade per mancanza di ossigeno".
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Per aspera ad astra